CONTROLLO DELL’INFIAMMAZIONE IN RIABILITAZIONE
L’infiammazione è il normale e necessario prerequisito della guarigione dei tessuti biologici che hanno subito un danno strutturale, di origine sia traumatica sia chirurgica. È fondamentale che il fisioterapista identifichi il programma riabilitativo più appropriato per i pazienti sottoposti a chirurgia ortopedica, al fine di ottimizzare la durata e l’efficacia della fase infiammatoria del processo di guarigione durante la prima fase del percorso riabilitativo. Dal momento del danno tissutale alla maturazione della cicatrice, il processo di guarigione attraversa tre fasi caratteristiche (Fig. 1.1):
- infiammatoria;
- proliferativa o fibroblastica;
- di rimodellamento o di maturazione.
In generale, la fase infiammatoria ha inizio pochi minuti dopo la lesione e si protrae nei 4-6 giorni successivi. Quando le cellule vengono danneggiate dall’incisione chirurgica e dalla conseguente interruzione dell’apporto ematico, rilasciano una serie di agenti chimici (istamina, bradichinine, fattori di crescita nervosa, serotonina, prostaglandine) che determinano vasodilatazione dei vasi vicini alla lesione con conseguente fuoriuscita di essudato, denominato fluido o essudato infiammatorio, che si diffonde in tutta l’area danneggiata. L’essudato infiammatorio è ricco di mastociti che, rilasciando acido ialuronico e altri proteoglicani, determinano l’addensamento del fluido in una sorta di gel che ricopre la superficie della ferita. Un altro elemento caratteristico dell’essudato infiammatorio è l’alta concentrazione di fibrinogeno, che forma una fitta rete di fibrina e che successivamente maturerà in cicatrice.
Fagocitosi
Affinché il processo di guarigione vada a buon fine, è necessario che la ferita sia “ripulita” dagli agenti infettivi e dai detriti. Sostenuto dall’opportuna terapia antibiotica, il nostro sistema immunitario è in grado di prevenire lo sviluppo delle infezioni grazie ai globuli bianchi che, facilitati dal rallentamento del flusso ematico secondario alla vasodilatazione, raggiungono la sede della lesione. In questa fase, inoltre, la fibrina chiude i vasi linfatici impedendo la diffusione di eventuali infezioni. I neutrofili polimorfonucleati sono i primi a entrare in azione e iniziano il processo di fagocitosi di batteri e detriti. La loro azione dura fino a 48 ore dalla lesione; successivamente vengono sostituiti dai macrofagi, che permangono fino alla fine della fase infiammatoria. Oltre al controllo delle infezioni, i macrofagi hanno una funzione determinante nella riparazione della ferita, in quanto influenzano la sintesi di tessuto cicatriziale, attivando i fibroblasti attraverso la produzione di fattori di crescita specifici. Inoltre, tra gli scarti della fagocitosi, sono presenti l’acido ascorbico e l’acido lattico, che richiamano altri macrofagi. Quindi, più è alta l’attività di fagocitosi, più macrofagi vengono richiamati nella zona lesa. Di conseguenza, se la popolazione di macrofagi è eccessiva rispetto all’estensione della ferita, si ottengono due conseguenze negative: prolungare e amplificare l’intensità della risposta infiammatoria, con il rischio di andare incontro a infiammazione cronica; ottenere un tessuto cicatriziale ipertrofico non funzionale (Hardy, 1989).

Neovascolarizzazione
Il fenomeno di neovascolarizzazione permette all’ossigeno e agli elementi nutritivi di raggiungere le zone più profonde della ferita. In questo modo i macrofagi, che sembra abbiano un ruolo determinante anche nel dare il via alla neovascolarizzazione, possono raggiungere aree prima interdette a causa dell’ipossia. Dai vasi adiacenti alla ferita si dipartono nuovi rami che penetrano la zona lesa, formando una fitta rete di anse capillari, denominato tessuto di granulazione, che irrora la ferita e le conferisce il tipico colore rosso o rosato. I nuovi capillari sono molto fragili, quindi è necessario ridurre al minimo le sollecitazioni termiche (calore) e meccaniche in compressione o stiramento, per evitare microemorragie che prolungherebbero la fase infiammatoria. Inoltre, in questa fase si riaprono i vasi linfatici, occlusi precedentemente dalla fibrina, che contribuiscono alla riduzione dell’edema. Gli effetti macroscopici dei processi biologici fin qui descritti rappresentano i segni clinici distintivi dell’infiammazione: calore, rossore, edema e dolore. Il calore e il rossore sono secondari alla vasodilatazione e alla neovascolarizzazione, l’edema è dovuto alla presenza dell’essudato infiammatorio, il dolore è l’effetto della stimolazione chimica delle terminazioni libere delle fibre dolorifiche da parte dei mediatori infiammatori (prostaglandine, istamina) e dagli stimoli meccanici determinati dalla pressione esercitata dall’edema.
IL PROGRAMMA RIABILITATIVO
Il controllo dell’infiammazione è uno degli obiettivi della prima fase del percorso riabilitativo dei pazienti sottoposti a chirurgia ortopedica. Per raggiungere questo obiettivo è indispensabile che il fisioterapista conosca il meccanismo biologico dell’infiammazione, descritto in precedenza, in modo tale da effettuare una valutazione funzionale appropriata, porsi dei sotto-obiettivi utili e scegliere le strategie più efficaci per il singolo paziente (Kerr et al, 1999).
Valutazione funzionale
In generale, l’obiettivo della valutazione è raccogliere il maggior numero di informazioni cliniche rilevanti, per escludere la presenza di controindicazioni al trattamento riabilitativo, confermare l’ipotesi diagnostica (funzionale) di partenza, individuare i fattori di rischio, quelli prognostici e, ovviamente, definire gli obiettivi e le strategie del programma riabilitativo. Una corretta valutazione funzionale deve prevedere un approccio multidimensionale, affinché possa fornire tutte le informazioni per poter redigere un programma riabilitativo efficace. “Approccio multidimensionale” significa analizzare i deficit del paziente in tutti i domini identificati dalla International Classification of Functioning (ICF) (OMS, 2001). L’ICF è un documento prodotto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel 2001, che definisce e codifica tutte le componenti della salute degli individui (non le conseguenze degli stati morbosi), partendo da una visione biopsico-sociale dello stato di salute dell’individuo. Applicare questo modello alla riabilitazione permette al fisioterapista di ideare un programma riabilitativo costruito sul paziente e, soprattutto, con il singolo paziente, tenendo conto delle sue caratteristiche fisiche, psicologiche e comportamentali di quelle dell’ambiente in cui vive e delle sue esigenze specifiche. Grazie a questo tipo di approccio è possibile capire quali siano le priorità del paziente e scegliere di conseguenza gli obiettivi, le strategie di trattamento e le misure di outcome più appropriate per creare l’alleanza terapeutica necessaria, ottenere la massima compliance e raggiungere risultati veramente rilevanti.
Anamnesi
Nel contesto specifico del controllo dell’infiammazione, le informazioni anamnestiche utili sono:
- età;
- comorbilità e farmaci correlati;
- tipo di intervento chirurgico;
- descrizione soggettiva dei disturbi (quali disturbi, dove si avvertono, quando si avvertono) ed evoluzione nel tempo, dall’intervento al momento della valutazione;
- analisi del livello di consapevolezza del paziente rispetto al suo problema di salute e delle strategie di comportamento (coping) che sta attuando.
L’età avanzata e le comorbilità sono variabili biologiche importanti, non modificabili, che, a parità di intervento chirurgico, influenzano la durata del processo di guarigione in generale. Basti pensare a malattie come il diabete, l’osteoporosi, l’artrite reumatoide, deficit del sistema immunitario, carenza di vitamina C o di proteine sieriche. Alcuni farmaci hanno un pesante effetto negativo sul processo infiammatorio: per esempio, il cortisone ostacola il processo di guarigione in quanto inibisce il rilascio dei mediatori infiammatori e rallenta la mobilità dei leucociti e dei fibroblasti. Per il fisioterapista è quindi importante considerare queste variabili per verificare se il processo di guarigione del singolo paziente è compatibile con le sue caratteristiche biologiche. La conoscenza della tecnica chirurgica e la collaborazione con il chirurgo sono aspetti fondamentali, in quanto permettono di calibrare correttamente le strategie di trattamento. Per esempio, sapere quali tendini o legamenti sono stati coinvolti nell’intervento e avere informazioni sulla qualità di questi tessuti o sulla qualità dell’osso su cui è stata inserita un’artroprotesi permettono di adattare al meglio il trattamento, ottimizzare i tempi di guarigione ed evitare errori che possono influenzare negativamente la prognosi del paziente.
La descrizione soggettiva dei disturbi (dolore, parestesie, disestesie) permette di verificare se l’andamento dei disturbi è normale rispetto alle caratteristiche biologiche del paziente e al tipo di intervento chirurgico, fornisce informazioni indirette sulla collaborazione del paziente e permette di attuare strategie specifiche sul singolo caso. Un altro punto importante è verificare che il paziente sia informato circa la tipologia di intervento e le precauzioni da seguire per evitare danni e che le strategie, attuate da lui o dall’operatore in risposta al problema, siano adeguate al suo caso specifico.
Esame fisico
Durante la fase infiammatoria le componenti fondamentali dell’esame fisico sono:
- valutazione dell’allineamento posturale e della corretta applicazione di ortesi specifiche per l’intervento chirurgico effettuato (calze, fasciature, tutori);
- valutazione della funzionalità di eventuali drenaggi articolari;
- valutazione del colore della cute, dell’edema (estensione, consistenza e dolorabilità) e del termotatto;
- valutazione della sensibilità e della forza muscolare dei distretti distali alla sede dell’intervento.
La raccolta di tutte queste informazioni mediante la valutazione funzionale permette di identificare subito la presenza di complicazioni, di identificare gli obiettivi e le strategie di trattamento e di decidere se richiedere o meno l’intervento di altri operatori sanitari.
Obiettivi
I sotto-obiettivi specifici per il controllo dell’infiammazione sono di seguito elencati.
- Ridurre la temperatura: controllare il calore della ferita è necessario perché, se perdura a lungo, determina una risposta infiammatoria prolungata con la conseguenza di ritardare la guarigione e ottenere un tessuto cicatriziale esuberante (Hardy, 1989).
- Ridurre il dolore: il dolore è l’espressione della stimolazione chimica e meccanica delle terminazioni nocicettive, quindi controllarlo significa controllare l’infiammazione e la quantità di essudato infiammatorio. Inoltre, le fibre dolorifiche di piccolo calibro C, se adeguatamente stimolate, producono la sostanza P, che influenza positivamente il processo di guarigione (Burssens e Forsyth, 2005). Infine, se il dolore è meno intenso, il paziente è più predisposto a collaborare.
- Limitare la quantità di essudato infiammatorio: la quantità di essudato infiammatorio è proporzionale all’estensione della ferita chirurgica. È importante che questa proporzione sia sempre rispettata, sia per ottimizzare la durata della fase infiammatoria sia per ottenere una riparazione tissutale adeguata.
- Proteggere i tessuti lesi: se la ferita viene sollecitata troppo, rispetto allo stadio del processo infiammatorio, può verificarsi una nuova emorragia, vasodilatazione, rottura delle anse capillari del tessuto di granulazione, ottenendo un incremento e un prolungamento della reazione infiammatoria (Evans, 1980; Hardy, 1989).
- Educare il paziente e il care giver circa i comportamenti da seguire per evitare complicazioni e favorire la guarigione.
Strategie
PRICE
L’uso di questa strategia, acronimo di Protection (protezione), Rest (riposo), Ice (ghiaccio), Compression (compressione) ed Elevation (elevazione), è la modalità più accreditata per la gestione delle lesioni dei tessuti molli nella fase infiammatoria del processo di guarigione (Evans, 1980; Hardy, 1989; Kerr et al, 1999). La protezione comprende tutte le strategie utili per evitare sollecitazioni meccaniche eccessive che possono impedire la guarigione o creare ulteriori danni. Il riposo è necessario per ridurre il fabbisogno metabolico dell’area lesa e per evitare un aumento dell’apporto ematico. Esempi di strategie di protezione e riposo sono rappresentate dell’uso di ausili per la deambulazione come deambulatori o bastoni canadesi, tutori, taping, splint o allettamento. Nell’applicare protezione e riposo è importante seguire alcune raccomandazioni:
- vanno utilizzate subito dopo l’intervento;
- non esiste una durata standard ma, a seconda della sede e del tipo di intervento, delle strutture coinvolte e della presenza di complicazioni, può variare da 24 ore a una settimana. Per questo motivo è fondamentale l’interazione con il chirurgo per scegliere i tempi e i modi ideali di immobilizzazione;
- la mobilizzazione precoce, successiva al periodo di protezione, deve rispettare la capacità di carico del tessuto in via di guarigione;
- le contrazioni isometriche dei gruppi muscolari adiacenti alla ferita, possono essere effettuate rispettando la soglia del dolore;
- i sistemi di protezione devono essere confortevoli per il paziente, permettere alle strutture non coinvolte di muoversi liberamente e non interferire con il riassorbimento dell’edema.
Il ghiaccio è lo strumento più utilizzato come forma di crioterapia. Nonostante questo, esiste un’enorme variabilità individuale rispetto ai modi e ai tempi di applicazione e ai presunti effetti del freddo sui tessuti in via di guarigione. In base alle evidenze attualmente disponibili, l’applicazione del ghiaccio riduce il dolore, la temperatura, il flusso ematico, il metabolismo e, nel breve periodo, limita l’entità dell’edema.
Di seguito si riportano le raccomandazioni relative all’uso del ghiaccio (Hubbard et al, 2004; Kerr et al, 1999):
- la modalità più efficace di crioterapia è rappresentata dall’uso di ghiaccio tritato, disposto in un asciugamano umido. Hanno dimostrato una minore efficacia l’uso di ghiaccio in sacche di plastica e l’uso di pacchetti di gel congelato;
- la durata dell’applicazione deve essere compresa tra 20 e 30 minuti, a seconda dello spessore del tessuto sottocutaneo e va ripetuta ogni 2 ore. Un’applicazione di ghiaccio superiore a 30 minuti può causare bruciature cutanee e deficit di conduzione nervosa;
- bisogna fare molta attenzione all’applicazione del ghiaccio in zone con tessuto sottocutaneo sottile o nelle aree dove i nervi periferici sono più superficiali (per esempio, il nervo ulnare al gomito, il nervo peroneo comune al ginocchio). In questi casi, la durata dell’applicazione deve essere ridotta a 10 minuti;
- l’uso del ghiaccio è controindicato in caso di ipersensibilità al freddo (aumento del dolore o orticaria), in presenza del fenomeno di Raynaud, in caso di vasculopatia periferica e in caso di sospetta lesione nervosa.
È importante ricordare che questi studi, riferiti all’uso del ghiaccio nel periodo postoperatorio di pazienti sottoposti a chirurgia ortopedica, presentano una scarsa qualità metodologica, quindi giungono a conclusioni che non possono essere considerate definitive (Hubbard et al, 2004).
La compressione e l’elevazione hanno l’obiettivo principale di controllare l’edema. In particolare la compressione arresta il sanguinamento, aumenta la pressione idrostatica del fluido interstiziale che viene spinto nei capillari e nei vasi linfatici e nei tessuti adiacenti all’area lesa. Inoltre, la compressione aumenta l’efficacia della pompa muscolare nell’influenzare il ritorno venoso.
L’elevazione dell’arto determina una riduzione della pressione arteriosa, riduce la fuoriuscita di fluidi dai vasi e favorisce il drenaggio dell’essudato infiammatorio. Le raccomandazioni da seguire nell’applicazione della compressione e della elevazione sono (Kerr et al, 1999):
• la compressione deve essere maggiore a livello distale e diminuire verso la parte prossimale;
• la compressione deve essere applicata almeno 10 centimetri al di sopra e al di sotto della sede della ferita;
• è necessario controllare sempre la porzione distale alla compressione per verificare che non si verifichi la cianosi dei tessuti;
• l’elevazione oltre il piano del cuore deve essere mantenuta il più a lungo possibile nei primi 3 giorni dopo l’intervento;
• l’estremità elevata deve essere adeguatamente supportata;
• evitare di passare dalla posizione di elevazione dell’estremità alla posizione sotto carico, per evitare l’aumento dell’edema (effetto “rebound”);
• elevazione e compressione non devono essere applicate insieme per un tempo prolungato, in quanto questa associazione terapeutica determina un’eccessiva pressione intramuscolare che potrebbe compromettere il microcircolo.
Elettroterapia
Le tecniche di elettroterapia più utilizzate nella prima fase del processo di guarigione sono gli ultrasuoni, la laser terapia e la stimolazione nervosa elettrica transcutanea (TENS).
L’uso di ultrasuoni pulsati a bassa intensità, 0,5 w/ cm2 , determina un aumento della mobilità dei macrofagi e, di conseguenza, riduce il rischio di infezioni, migliora la qualità del tessuto cicatriziale e riduce la formazione di aderenze tra i vari tessuti coinvolti dalla lesione.
La laser terapia a bassa intensità ha dimostrato di ridurre l’intensità del dolore, di migliorare il risultato funzionale e di accelerare del 25-30% la guarigione delle ferite chirurgiche secondarie a problematiche muscolo-scheletriche.
La TENS, erogata in modalità burst, è in grado di stimolare la produzione, la maturazione e la corretta disposizione del collagene. La spiegazione biologica di questo effetto potrebbe essere legata alla capacità della TENS di stimolare la produzione di sostanza P da parte delle fibre nervose amieliniche di tipo C (Burssens et al, 2005; Khalil e Merhi, 2000).
Mobilizzazione precoce
La mobilizzazione precoce è un argomento che genera accese discussioni tra chi sostiene che sia efficace nell’ottimizzare il processo di guarigione e chi sostiene invece che sia dannosa. In base ai risultati degli studi disponibili, si può dire che sollecitare la sede dell’intervento nelle prime 24-36 ore può provocare facilmente un’irritazione, con conseguente risposta infiammatoria prolungata (Kerr et al, 1999). Questo però non vuole dire che è necessario il riposo assoluto, in quanto le contrazioni isometriche al di sotto della soglia del dolore e la mobilizzazione attiva dei distretti adiacenti alla sede dell’intervento hanno un effetto positivo sull’edema, sul dolore e sulla mobilità dei macrofagi (Shaw et al, 2005). Per queste motivazioni è fondamentale identificare la safe zone (zona sicura) entro cui è possibile applicare sollecitazioni senza danneggiare le strutture coinvolte dall’intervento (Amadio, 2005). Il concetto di zona sicura fa riferimento sia al tempo che deve trascorrere prima di iniziare la mobilizzazione sia all’ampiezza della stessa. La conoscenza della tecnica chirurgica e l’interazione con l’ortopedico sono di fondamentale importanza per definire l’ampiezza di questa “zona”. Per esempio, negli interventi di artroprotesi, in assenza di lesioni concomitanti dei tessuti molli, la mobilizzazione passiva, manuale o meccanica continua, può iniziare, rispettando la soglia del dolore, già dal 2° giorno postoperatorio (Lenssen e Crijns, 2006; Milne e Brosseau 2003). Nei casi di tenoraffia o tenotomia, invece, la mobilizzazione può iniziare non prima del 3-5° giorno, ma non più tardi di una settimana dall’intervento (Amadio, 2005).
Misure di outcome
Individuare degli indicatori di risultato permette di valutare l’andamento del processo di guarigione e di apportare eventuali modifiche alle strategie di trattamento. La scelta degli strumenti di outcome e il peso da attribuire a ciascuno di essi dipendono dai risultati della valutazione funzionale. Esempi di misure di outcome utilizzabili per i pazienti in questa fase sono la riduzione del dolore e dell’edema, l’aumento dell’ampiezza di movimento (ROM, Range Of Motion) in assenza di dolore, la riduzione del termotatto, la normalizzazione del colore della cute, la chiusura della ferita chirurgica, la validità della contrazione muscolare e l’assenza di alterazioni della sensibilità. Ovviamente, l’incremento o la comparsa ex novo di questi disturbi, rendono necessario il consulto con il chirurgo.

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Fonte: https://www.edizioniedra.it
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