ACCESSO DIRETTO IN FISIOTERAPIA: IL PAZIENTE CON PROBLEMATICHE MUSCOLOSCHELETRICHE

OBIETTIVI

Gli obiettivi di questo professional issue sono molteplici ed hanno come denominatore comune quello di fornire un quadro il più possibile omnicomprensivo sull’accesso diretto in fisioterapia (AD) per pazienti con disordini muscolo-scheletrici (DMS). In particolare si intende illustrare:
1. La legislazione internazionale sull’AD per poi approfondire il quadro italiano fornendo un esempio specifico regionale (i.e. Piemonte);
2. L’epidemiologia ed i costi associati ai DMS più gravosi, a livello internazionale e nazionale;
3. L’evidenza scientifica sull’efficacia, sicurezza e costoefficacia dell’AD in confronto con accesso fisioterapico riferito ed altre tipologie di intervento.
Tali aspetti vengono presentati in riferimento al contesto giuridico italiano sull’AD, per poterne discutere la possibilità di implementazione sul territorio, illustrando i potenziali vantaggi di cui potrebbero usufruire i pazienti con DMS.

ACCESSO DIRETTO IN FISIOTERAPIA
Per accesso diretto in fisioterapia si intende la possibilità da parte del cittadino di rivolgersi direttamente al fisioterapista come primo punto di contatto (self referral in inglese), evitando passaggi intermedi tramite altri professionisti sanitari che possano allungare le tempistiche dell’iter valutativoterapeutico1.

Nel Mondo
L’accesso diretto in fisioterapia sembra essere nato quasi 40 anni or sono. Nel 1976, infatti solo ai pazienti di due stati degli Stati Uniti, Nebraska e California, era legalmente consentito l’accesso, senza invio del medico, ai servizi di fisioterapia. Nello stesso anno, in Australia, l’Australian Physiotherapy Association (APA), abrogò il principio che dichiarava che: “Non era etico per un fisioterapista membro dell’associazione, agire a titolo professionale solo dopo invio del paziente da parte di un medico o dentista registrato”.
Poiché non vi era alcun ostacolo giuridico per l’accesso diretto in Australia, la mossa dell’APA ha essenzialmente “cambiato mentalità piuttosto che una legge”, afferma Jonathon Kruger nel suo articolo2. Prue Galley, un fisioterapista australiano, sempre nel 1976, fu il primo a spingere affinché la nostra professione venisse accreditata in prima linea. Egli affermava che: “… abbiamo noi come fisioterapisti, la conoscenza, il coraggio, la volontà e la visione, per compiere questo passo indipendente, ben sapendo che si tratterà di una maggiore responsabilità, maggiore dedizione e autodisciplina per tutti noi”2. Kruger definisce la decisione del 1976 come “forse la mossa più importante” della storia della nostra professione2. Nel corso degli ultimi tre decenni sempre più paesi hanno avviato una legislazione specifica per l’accesso diretto in fisioterapia. Attualmente la pratica professionale autonoma del fisioterapista è un tema che sta assumendo sempre più rilevanza nei sistemi sanitari moderni. Lo testimonia anche l’“APTA Vision 2020” che afferma come la pratica autonoma del fisioterapista e l’accesso diretto sono due fra i principali punti di enfasi3. Infatti prova ne è il sondaggio pubblicato dalla World Confederation for Physical Therapy (WCPT) a gennaio 2013. Tale sondaggio evidenzia come sia l’Africa il continente che rende maggiormente libero il cittadino di scegliere, il proprio fisioterapista, sia in ambito privato sia nel pubblico mentre negli altri continenti la possibilità di AD scenda intorno al 50% (immagine 1)4. È importante segnalare che nella maggior parte dei paesi membri della WCPT l’AD è consentito unicamente nel settore privato. Nella maggior parte degli Stati Uniti l’AD rappresenta una realtà ormai consolidata dove il servizio è principalmente dedicato ai DMS4,5,6,7. Un lavoro di Shoemaker8 del 2012 analizza questa situazione presentando una disamina sugli aspetti contrari e favorevoli all’AD. L’autore evidenzia la sicurezza di tale percorso, non inferiore a quello medico-mediato e sottolinea le migliorie in termini di qualità del servizio e di risultati terapeutici raggiunti. Nel 2013 un lavoro di Bury focalizza l’attenzione sull’AD, analizzando la situazione normativa che regola l’AD nei paesi membri della WCPT9.

In Europa
A livello europeo la situazione risulta non omogenea: Bury10, utilizzando una metodologia simile allo studio realizzato su scala globale, esamina la realtà europea in riferimento all’AD. Dei 27 paesi europei membri della WCPT, 23 hanno partecipato al sondaggio da cui sono stati estrapolati i dati: in 12 paesi (52% dei partecipanti al sondaggio) l’AD è consentito dalla legislazione vigente o, in assenza di normativa, dal profilo professionale. L’AD è maggiormente disponibile nel settore privato (83%) rispetto al pubblico (22% dei paesi partecipanti al sondaggio). Nel 2006 viene introdotto l’AD nei Paesi Bassi e vengono pubblicati alcuni lavori al riguardo che sottolineano come rappresenti un modello organizzativo virtuoso per diversi motivi che verranno approfonditi nel corso di questo professional issue

In Italia
Nel nostro paese le cure fisioterapiche pubbliche prevedono il passaggio dal Medico specializzato in Medicina Fisica e Riabilitativa (definito anche Fisiatra) il quale valuta e stabilisce la necessità dell’intervento riabilitativo attraverso la redazione del Progetto Riabilitativo Individuale (PRI).
L’AD è percorribile attualmente nel settore privato: il cittadino può rivolgersi ai fisioterapisti liberi professionisti i quali, nel rispetto del loro profilo professionale, prendono in carico la gestione riabilitativa del paziente ed operando in autonomia e/o in collaborazione con altri professionisti sanitari mirano a rispondere al bisogno di salute del paziente.
Esistono tuttavia delle situazioni in cui l’AD è proscritto anche nel settore privato. In particolare, in Regione Piemonte è necessario il passaggio dal Medico Fisiatra in presenza di una delle condizioni descritte dalla DGR del 10-5605 del 200717. Alcune di queste indicazioni sono presentate in modo generico e sembrano evidenziare un’apparente antitesi con quanto stabilito dal profilo professionale del fisioterapista, che “[…] opera in riferimento alla diagnosi medica; elabora, anche in équipe multidisciplinare, la definizione del programma di riabilitazione volto all’individuazione ed al superamento del bisogno di salute del disabile; pratica autonomamente attività terapeutica per la rieducazione funzionale delle disabilità motorie, psicomotorie e cognitive utilizzando terapie fisiche, manuali, massoterapiche e occupazionali.

DISORDINI MUSCOLOSCHELETRICI
I DMS sono un gruppo eterogeneo di condizioni cliniche che affliggono l’apparato muscoloscheletrico che possono comprendere anche manifestazioni sistemiche: tra queste le più frequenti da un punto di vista epidemiologico sono rappresentate da lombalgie, cervicalgie ed osteoartrosi (di spalla, anca e ginocchio). La sintomatologia dolorosa spesso si associa a limitazioni funzionali con possibile impatto sulla vita sociale dell’individuo. La rilevanza dei DMS diventa ancora più significativa se si analizza lo stile di vita spesso troppo sedentario ed il progressivo invecchiamento della popolazione: le previsioni sottolineano infatti come la prevalenza e l’incidenza dei DMS andranno verosimilmente ad aumentare nei prossimi anni e che tali condizioni possono influenzare la normale esecuzione delle attività quotidiane (lavorative e non) e delle attività del tempo libero19.

Quadro epidemiologico internazionale
Il rapporto “The Global Burden of Disease: Generating Evidence, Guiding Policy” (GBD), pubblicato nel 2013 dall’Institute for Health Metrics and Evalutazion (IHME) dell’Università di Washington, sottolinea come i DMS, in termini di impatto sulla salute globale, siano secondi solo alle patologie mentali e ai disturbi di comportamento. Il documento sottolinea che nel decennio 1990-2010 i DMS sono risultati essere tra i più invalidanti in termini di anni di vita persi a causa della disabilità – Disability-Adjusted Life Years (DALYs) – e di anni vissuti con disabilità – Years Lived with Disability (YLD). Inoltre, nel 2010, le persone di 45-49 anni e 50-54 anni d’età sono state le più colpite dai DMS. Le patologie dell’apparato muscolo-scheletrico compaiono tra le prime 10 cause di disabilità in molte regioni del mondo e, in particolare, l’osteoartrosi è tra le prime 20 cause in ogni regione, ad eccezione dell’Africa sub-sahariana centrale.L’impatto che questi numeri hanno sui sistemi sanitari nazionali è evidente e si aggiunge a quello relativo al sempre più frequente ricorso alla protesizzazione per quadri di osteoartrosi refrattari al trattamento incruento.
Una diagnosi precoce e un trattamento adeguato comporterebbero una riduzione della disabilità e un miglioramento della prognosi e dell’aspettativa di vita, con conseguente abbattimento anche dei costi indiretti: la disabilità e i costi economici e sociali di gestione dei DMS, infatti, sono direttamente proporzionali al loro stadio di progressione.

Quadro epidemiologico italiano
Il panorama italiano rispecchia il quadro internazionale: i report annuali realizzati dall’Istat segnalano come i DMS siano tra le condizioni croniche più diffuse nella popolazione, assieme ad ipertensione, osteoporosi, problematiche respiratorie (BPCO e asma) e diabete. L’Indagine Multiscopo evidenzia come tali disturbi siano in aumento in rapporto all’età, indipendentemente dal sesso, mentre l’analisi per genere evidenzia che la prevalenza di questi disturbi è maggiore nelle donne rispetto agli uomini (22,1% di artrite/ artrosi nelle donne vs 12,1% negli uomini)23. Le differenze geografiche riscontrate suggeriscono che alcune aree del Paese necessitano di interventi rivolti a semplici correzioni degli stili di vita nelle diverse età23. La gestione di tali condizioni cliniche prevede anche l’utilizzo di servizi riabilitativi finalizzati al miglioramento dello stato di salute in termini di minor impatto sull’autonomia funzionale del cittadino, una riduzione delle necessità assistenziali che il servizio sociosanitario deve erogare per ottemperare alle esigenze del cittadino.

Quadro Economico-Organizzativo Italiano
Dal punto di vista dei costi sanitari per le prestazioni riabilitative, il Ministero della Salute nel suo report annuale (relativo agli anni 2012-2013) presenta questi valori quantitativi: 1.882.829.000 € spesi nel 2012 (91.600.000 nel settore pubblico e 1.791.229.000 nel settore privato) e 1.878.387.000 nel 2013 (86.530.000 nel pubblico e 1.791.857.000 nel privato)26. Per la sola regione Piemonte, secondo il report dell’Assessorato di Sanità, nel 2012 circa il 48% delle richieste di visita specialistica medico-fisiatrica è stata svolta nei primi 10 giorni dalla richiesta, mentre il 25,1% si è svolta oltre un mese dalla richiesta presentata dal paziente. Nel 2013 il dato è sostanzialmente sovrapponibile, con un trend in lieve miglioramento in riferimento alle percentuali delle visite fisiatriche effettuate ai 10 giorni dalla richiesta (50%) e nelle visite oltre i 30 giorni (25,7%).
Questo dato in realtà non è informativo sulle condizioni cliniche del paziente ma lascia intendere come le richieste di riabilitazione non vengano accolte, nella metà dei casi, nelle tempistiche considerate appropriate per affrontare le condizioni di disabilità; inoltre i dati non riferiscono all’inizio dell’eventuale trattamento riabilitativo. Proiettando i dati sopracitati sul territorio piemontese, il costo della riabilitazione in Regione Piemonte per il 2012 è corrisposto a 163.723.000 euro (30.099.000 settore pubblico, 133.624.000 privato) mentre per il 2013 è stata calcolata in 172.196.000 euro (37.627.000 euro per il settore pubblico e 134.569.000 euro per il settore privato) con un incremento superiore al 5% rispetto all’anno precedente.

Lombalgia
La lombalgia, in inglese low back pain (LBP), viene definita come “dolore e/o limitazione funzionale compreso tra il margine inferiore dell’arcata costale e le pieghe glutee inferiori con eventuale irradiazione posteriore alla coscia ma non oltre il ginocchio che può causare l’impossibilità di svolgere la normale vita quotidiana, con possibile assenza dal lavoro” 29,30. Il LBP è il DMS con la più alta prevalenza nel corso della vita e che circa il 40% della popolazione sperimenta almeno una volta nella vita30; viene stimato che un 17% abbia impatto sulla vita quotidiana riducendo le attività svolte dalla persona (activity limiting LBP)30.
Si attesta intorno al 10%, con un tasso che supera il 20% in riferimento alla prevalenza ad un mese; dal punto di vista del genere non vi è accordo in quanto alcuni autori segnalano una predominanza del sesso femminile, altri sottolineano una prevalenza più elevata negli uomini rispetto alle donne (10.1% uomini vs 8.7% donne)31,32.
L’immagine 3 mostra la prevalenza suddivisa tra maschi e femmine secondo il rapporto GBD 2010. Una parte (circa il 40%) di questi pazienti riesce a risolvere completamente la sintomatologia dolorosa nelle prime 4-6 settimane indipendentemente dal trattamento proposto, percentuale che sale fino al 60% ad un follow up di 1 anno: si comprende come una fetta rilevante di pazienti tenderà a sviluppare situazioni di cronicità con conseguente impatto sulla vita quotidiana.
Un recente lavoro del 2014 di Hoy ha esaminato i risultati dello studio sopracitato GBD 2010 da cui si evince come il LBP rappresenti la condizione clinica che determina la disabilità più importante (misurata in anni vissuti con disabilità – YLDs) e che causa un “fardello” che la colloca al 6° posto tra le 291 condizioni cliniche analizzate.
La gestione viene principalmente affrontata dal medico di medicina generale (MMG): il fisioterapista può rientrare in questo processo dal punto di vista dell’educazione, suggerendo al paziente di ridurre ma non abbandonare le attività giornaliere, al fine di mantenere la massima autonomia nella vita quotidiana, lavorativa e non. Queste indicazioni derivano dalla prognosi generalmente benigna, con la possibilità per il 60% dei pazienti inclusi nello studio di Henschke di recuperare la completa autonomia nelle prime 6 settimane dall’insorgenza (LBP acuto). Nei casi in cui la sintomatologia non rientri nelle tempistiche sopra citate si parla di LBP subacuto (1-3 mesi) che rappresenta il periodo più critico da un punto di vista di gestione terapeutica in quanto si deve evitare il passaggio in condizione di cronicità (>3 mesi): diventa pertanto importante l’approccio precoce per “aggredire” il quadro clinico e tentare di contrastare l’evoluzione negativa che il soggetto sta sviluppando. L’evoluzione verso la cronicità rappresenta la terza condizione clinica (rispetto a LBP acuto e subacuto) che negli ultimi anni ha assunto una notevole rilevanza sia da un punto di vista epidemiologico sia da un punto di vista economico: nel LBP cronico il trattamento migliore sembra essere quello multimodale e multidisciplinare in accordo con un approccio biopsicosociale come proposto dall’ICF vista la complessità dei fattori coinvolti nel mantenimento del problema.

Cervicalgia
La cervicalgia, in inglese “neck pain” (NP), viene definita come una condizione di “dolore percepito come originante da un’area compresa superiormente dalla linea nucale, inferiormente da una linea immaginaria passante per l’estremità del processo spinoso di T1 e lateralmente dai piani sagittali tangenti ai bordi laterali del collo (IASP, Merskey e Bogduk 1994). Si evidenzia come il sintomo caratterizzi la zona posteriore del collo e possa essere associato ad irradiazione a testa (cervico-cefalico), tronco (cervico-toracico) e arti superiori (cervico-brachiale). Il NP è un disturbo molto frequente nella popolazione generale, con una maggior prevalenza a carico del sesso femminile39. Secondo alcuni dati si stima che una percentuale di popolazione compresa tra il 22 ed il 70% sperimenterà almeno una volta nella vita questa condizione clinica, con un elevato tasso di recidive.
L’immagine 4 mostra la prevalenza suddivisa tra maschi e femmine secondo il rapporto GBD 2010. La prevalenza globale è stimata nel 4.9% della popolazione mondiale, maggiore nelle donne (5.8%) rispetto agli uomini (4.0%): questo dato è da considerarsi omogeneo per tutte le realtà continentali del pianeta. Come il LBP anche il NP può condurre a disabilità di grado differente in base a fattori personali e temporali: infatti la durata del sintomo e il suo tasso di recidive sono generalmente associati ad un esito più scadente43. Il NP è responsabile per molti aspetti sociali ed economici legati a questa condizione44: infatti esso risulta la quarta condizione clinica (misurata in YLDs), tra le 291 analizzate, correlata a disabilità, e la 21esima in termini di peso globale, misurata in DALYs. Le indicazioni della letteratura sottolineano l’importanza di un approccio multimodale per affrontare le problematiche di dolore e di disabilità: mobilizzazioni e/o manipolazioni dovrebbero essere affiancate ad un adeguato programma di esercizio terapeutico per massimizzare i risultati.

Osteoartrosi
L’osteoartrosi (OA) è una delle condizioni croniche più comuni che secondo il report già citato per LBP e NP (GBD) concorre come 11esima causa di disabilità globale e come 38esima in termini di DALY45. Dati epidemiologici relativi alla prevalenza dell’OA negli Stati Uniti evidenziano una condizione clinica rilevante: si stima che il 13,9% degli adulti di età superiore ai 25 anni sia affetto da questa problematica, percentuale che sale ad oltre il 30% focalizzando l’attenzione sulle persone di età superiore ai 65 anni (http://www.cdc.gov). Nella popolazione anziana l’OA è la più comune causa di disabilità, generando dolore e limitazione nell’attività e restrizione nella partecipazione (secondo il modello di salute ICF)46. Dal momento che l’aspettativa di vita è in aumento, il numero di persone affette da questo disturbo sarà costretta ad affrontare l’OA per un tempo più prolungato. Il trattamento si costituisce di tre modalità differenti che possono risultare complementari al fine di garantire il miglior risultato clinico per il paziente: vi è l’opzione farmacologica, l’opzione non farmacologica e quella chirurgica.L’apporto che il fisioterapista può dare a questo processo risiede nel supporto non farmacologico derivante da una recente linea guida dell’EUropean League Against Rheumatism (EULAR)50. La linea guida sottolinea l’importanza di alcuni interventi che il fisioterapista può impostare: l’educazione e l’informazione del paziente – soprattutto mirato ad un adeguato stile di vita, ad una opportuna perdita di peso in caso di eccesso ponderale – e l’esercizio terapeutico – impostato secondo criteri mirati sia a migliorare il fitness e la performance del soggetto nella vita quotidiana, sia ad agire come modulazione discendente del dolore secondo le acquisizioni più recenti sulla neurofisiologia del dolore – rappresentano due delle opzioni con un livello di evidenza elevato riguardo alla loro efficacia.

EFFICACIA, SICUREZZA E COSTO-EFFICACIA DELL’ACCESSO DIRETTO IN FISIOTERAPIA PER PROBLEMATICHE MUSCOLOSCHELETRICHE

Per poter promuovere l’AD come opzione per la gestione dei DMS, è opportuno verificare che questa modalità sia efficace in termini di risultati in termini di misure di esito, di costi e di sicurezza per il paziente.

Accesso fisioterapico diretto versus accesso fisioterapico riferito
Una recente revisione sistematica51 sull’efficacia dell’AD ha selezionato 8 articoli che confrontavano AD ed accesso fisioterapico riferito e, fra più di 1500 articoli scrutinati, ha confermato che il numero di visite di fisioterapia era significativamente inferiore nel gruppo di AD rispetto al gruppo riferito dal medico. Da segnalare in particolare due studi presi in esame dalla revisione, lo studio di Pendergast52 che comprendeva il maggior numero di partecipanti (gruppo AD nr. 17362; gruppo riferito dal medico, nr. 44755) ha segnalato una differenza media di 1,1 visite tra i gruppi (P<.001), e lo studio di Mitchell e de Lissolvoy5 di quelle segnate che riportava la più grande differenza media, con il gruppo di AD con 20.2 visite rispetto al gruppo riferito dal medico con 33,6 visite (P<.0001). Sempre nella stessa revisione veniva illustrato come i pazienti che frequentavano la fisioterapia ad AD, ricevevano un minor numero di bioimmagini ed un minor numero di interventi farmacologici.
Mitchell e de Lissolvoy5, avevano segnalato che nel gruppo ad AD si trovavano meno richieste di farmaci in maniera statisticamente significativa (P<.01). Altri due studi presi in esame da Ojha53,54 hanno riportato un minor numero di farmaci prescritti nel gruppo ad AD (p<.001), ed il 12% in meno di analgesici o FANS presi dai pazienti, nel gruppo ad AD (P<.0001). Si rilevano anche un minor numero di bioimmagini richieste con percentuali che vanno dal 6% al 8%51. Un livello superiore di soddisfazione inoltre è stato trovato nel gruppo di pazienti che avevano ricevuto fisioterapia in AD rispetto ai pazienti riferiti dal medico con percentuali che vanno dal 5% al 9%, rispettivamente negli studi di Hackett53 e di Webster55. I pazienti che ricevevano la fisioterapia attraverso l’AD contro quelli inviati dal medico hanno avuto risultati migliori alla dimissione51. Leemrijse ha riportato che la percentuale di pazienti che hanno raggiunto pienamente gli obiettivi alla dimissione è stata del 9.3% in più nel gruppo di AD (72.6% vs 63.3%). Holdsworth e Webster54 hanno riportato che la percentuale di pazienti che hanno terminato il loro percorso di cura è stata del 79% nel gruppo di AD rispetto al 60% nel gruppo riferito dal medico. Hackett53 inoltre ha riportato che il numero medio di giorni di lavoro persi è stato di 17 giorni in meno nel gruppo di AD rispetto al gruppo riferito.

Accesso fisioterapico diretto versus altri gruppi di controllo
Uno studio randomizzato controllato di Nordeman36 ha analizzato gli effetti di trattamenti fisioterapici erogati in regime di AD in cui ai pazienti era garantita una valutazione clinica e un trattamento entro due giorni dalla loro inclusione nello studio (early access in inglese). Questo intervento è stato confrontato con un gruppo di controllo in cui al paziente veniva somministrato il medesimo trattamento del gruppo sperimentale ma erogato in un’unità di cure primarie in pazienti inseriti in lista d’attesa a cui il trattamento era erogato, seppur nelle stesse modalità, quattro settimane dopo la prima valutazione (accesso ritardato). Lo studio ha dimostrato un miglioramento nel dolore percepito dal paziente (misurato con la scala di Borg da 0 a 10) rispetto al gruppo di controllo, misurato dopo sei mesi: nel gruppo sperimentale il dolore si riduceva mediamente di 3.0 punti rispetto ai 2.0 del gruppo di controllo e questa differenza tra i gruppi è risultata statisticamente significativa (p=0.025).
Nessuna differenza è però stata osservata per le altre misure di esito al momento delle dimissioni ed a sei mesi (disabilità, L. Piano, F. Maselli, A. Viceconti, S. Gianola, A. Chiarotto rischio di disabilità a lungo termine e assenze per malattia).
La tempestività della presa in carico è una caratteristica peculiare dell’AD rispetto a quello riferito e nello studio di Zigenfus, condotto su lavoratori con lombalgia acuta, questo parametro ha dimostrato di essere migliore nel gruppo sperimentale (prima visita il giorno stesso o il giorno successivo) rispetto all’ accesso ritardato (tra 2 e 8 giorni nel secondo gruppo di confronto e tra 8 e 197 giorni nel terzo gruppo) in termini di numero totale di accessi necessari: nel gruppo con accesso precoce, 3.4 nel secondo gruppo e 3.9 nel terzo gruppo e la differenza tra i gruppi era significativa (p<0.01). Risultati migliori per l’accesso rapido si sono registrati anche per quanto riguarda la durata totale dei casi trattati (9.8 nel primo gruppo, 12.3 nel secondo gruppo e 16.5 nel gruppo), la durata del periodo di lavoro svolto con delle limitazioni (8.1 nel primo gruppo, 9.9 nel secondo gruppo e 13.4 nel terzo gruppo) e i giorni lontano dal lavoro (4.5 nel primo gruppo, 5.2 nel secondo) gruppo e 7.0 nel terzo gruppo: i risultati erano tutti statisticamente significativi (p<0.01; p<0.05 nei giorni lontano dal lavoro). Sebbene i due studi citati analizzino il confronto tra due interventi entrambi in regime di AD (ritardato vs. precoce), pare chiaro che solo il secondo è quello che possiede nella realtà le caratteristiche effettive di un intervento con AD (tempestività della presa in carico). Lo studio di Daker-White57 ha messo a confronto la modalità di valutazione e trattamento effettuate direttamente da fisioterapisti adeguatamente addestrati rispetto alla presa in carico da parte di chirurghi ortopedici specializzandi in un reparto ospedaliero di ortopedia. Dallo studio è emerso che vi è una differenza statisticamente significativa tra i due gruppi nella soddisfazione dei pazienti a favore della valutazione somministrata dai Fisioterapisti. La “qualità percepita dal paziente” era del 31.0 nel gruppo dei medici contro 28.0 nel gruppo dei fisioterapisti (p=0.001). Nessuna differenze statisticamente significativa tra i due gruppi è stata invece riscontrata per gli esiti clinici, né per l’analisi di minimizzazione dei costi. Nello studio è stato anche riportato come molti fisioterapisti avessero dichiarato di aver “somministrato” rassicurazioni e consigli ai pazienti e questo potrebbe spiegare la differenza nella soddisfazione dei pazienti in quanto entrambe queste caratteristiche suggeriscono che il fisioterapista trascorra più tempo con loro; tuttavia i dati sui tempi delle visite non sono stati raccolti e non è possibile pertanto trarre delle conclusioni. Il trial clinico di Taylor58 ha dimostrato come un sistema di cura con la presenza del fisioterapista nei reparti di emergenza per problematiche muscoloscheletriche periferiche, possa ridurre di 59.5 minuti il tempo di permanenza nel dipartimento (differenza tra accettazione e dimissioni), di 25 minuti il tempo di attesa (differenza tra tempo di accettazione e presa in carico medica o fisioterapica) e di 34.9 minuti il tempo del trattamento rispetto al gruppo di controllo dove i pazienti venivano trattati dal fisioterapista dopo valutazione e invio da parte del medico. Inoltre il 96% dello staff del dipartimento d’emergenza credeva che i fisioterapisti che lavorano con questa modalità organizzativa avessero le capacità tecniche e le conoscenze appropriate per lavorare nelle cure d’emergenza. Non vi erano differenze invece nel numero di ripresentazioni dei casi entro quattro settimane (10% in entrambi i casi), e nel numero di invii in radiologia (69% nel primo gruppo e 77% nel secondo). Sebbene il contesto in cui siano stati raccolti i dati di questo studio riguardi una realtà particolare che è quella della presenza del fisioterapista nei reparti d’emergenza, si possono assimilare ugualmente le finalità di questo modello organizzativo (nonostante in questo caso si intenda strutturato stabilmente all’interno degli ospedali) a quelle che si intendono per ciò che comunemente definiamo come AD, ovvero fornire al paziente il primo contatto con il fisioterapista, evitando il passaggio dal medico.

Effetti avversi dell’accesso fisioterapico diretto
Uno studio del 1999 ha esaminato gli effetti dell’introduzione di un fisioterapista come assistente del medico ortopedico nell’unità sanitaria al fine di ridurre le liste d’attesa: il fisioterapista agisce come filtro, seleziona i pazienti che richiedono un iter più approfondito indirizzandoli a specialisti per una successiva rivalutazione e/o ad altri professionisti sanitari per il prosieguo del trattamento59. Moore nel 2005 ha pubblicato uno studio osservazionale retrospettivo su una popolazione di militari dell’esercito statunitense. Nei 40 mesi di indagine sono stati valutati direttamente dai fisioterapisti 50799 pazienti dei quali non è stato riportato alcun effetto avverso. Gli autori evidenziano che il rischio di eventi avversi, in base ai dati a loro disposizione, sia equivalente tra AD ed accesso riferito e che tale riscontro possa rappresentare un punto di partenza di assoluta solidità per promuovere l’autoriferimento60. Un lavoro di Childs del 200561 ha analizzato le capacità valutative e le competenze nel management dei DMS dei fisioterapisti comparando con le competenze di differenti categorie di medici: il risultato interessante evidenzia che i fisioterapisti con esperienza e specializzazione in ambito muscoloscheletrico hanno maggiori competenze ed attitudine nella valutazione dei pazienti con DMS rispetto alle altre categorie mediche, ad eccezione degli ortopedici. Si nota inoltre come addirittura gli studenti del corso di laurea in fisioterapia siano più formati nel sostenere una valutazione del paziente con disordini muscoloscheletrici se confrontati con le specialità mediche inserite nello studio61. A supporto di ciò una revisione di Foster nel 2012 sull’attuale modello (riferito a Regno Unito e Danimarca) di gestione del paziente con DMS ha sottolineato le criticità dello stesso, evidenziando come i MMGabbiano meno competenze sia nella valutazione sia nella gestione terapeutica rispetto a professionisti specializzati nel settore muscoloscheletrico. La letteratura è più ricca di lavori che si occupano di documentare gli effetti avversi conseguenti ad interventi operati da fisioterapisti (e più in generale da trattamenti manuali eseguiti anche da professionisti quali chiropratici ed osteopati in base alla normativa di ciascun Paese) nella gestione di condizioni muscoloscheletriche.
Una revisione di Carnes del 2010, comprendente otto studi di coorte e 36 RCTs, ha studiato gli effetti avversi suddivisi in severi, moderati o lievi della terapia manuale in base al consenso Delfi che lo stesso autore ha pubblicato nel medesimo anno: in sintesi i dati estrapolati da questo lavoro evidenziano una probabilità del 50% di sviluppare eventi avversi di entità lieve-moderata in risposta ad un trattamento manuale, episodi che rientrano per la maggior parte nelle prime 72 ore.Gli eventi avversi seri sono poco frequenti, inferiori a quelli documentati in riferimento alle terapie farmacologiche. Altri lavori più recenti hanno focalizzato l’attenzione sul distretto colonna vertebrale: gli effetti avversi riportati rispecchiano da un punto di vista qualitativo e quantitativo i dati già evidenziati dai lavori più ampi come quello sopracitato di Carnes65.66. La qualità metodologica degli studi non sempre soddisfacente e l’eterogeneità degli approcci valutati rende difficile il conseguimento di conclusioni definitive.

Costo-efficacia dell’ accesso diretto fisioterapico per problematiche muscolo-scheletriche
Rispetto all’accesso fisioterapico riferito da un medico, l’AD sembra essere un approccio più economico per tutti i soggetti coinvolti (pazienti, assicurazioni, sistema sanitario) nel percorso di cura dei DMS. Nella revisione sistematica di Ojha51 sono stati inclusi quattro studi quasi-sperimentali (trial clinici non randomizzati)5,52,53,54 che approfondiscono gli aspetti legati ai costi dell’AD. Tre di questi studi dimostrano come l’AD permetta di contenere in modo statisticamente significativo i costi per la gestione dei DMS, riguardo a numero di visite52, prescrizione di indagini strumentali.
Lo studio di Holdsworth54, benché non effettui un’analisi statistica sulla differenza di costi tra AD ed accesso riferito, evidenzia un maggior contenimento della spesa per i pazienti che afferiscono alla fisioterapia tramite AD con un risparmio annuo ingente (stimato in 2 mln $) se proiettato sull’intero sistema sanitario scozzese a cui si riferisce la pubblicazione. Da un punto di vista di valutazione economica, gli studi inclusi nella revisione di Ohja51 possono considerarsi come analisi di costo minimizzazione delle spese sanitarie.
Questo tipo di analisi parte dall’assunto che due interventi sanitari (in questo caso AD ed accesso fisioterapico
riferito) abbiano la stessa efficacia e sia quindi possibile confrontare direttamente i costi per valutare quale intervento risulti meno costoso. Tuttavia, l’assunto di eguale efficacia di due interventi sanitari non è esente da limitazioni; per prendere in considerazione la possibilità che due interventi differiscano in efficacia, un’analisi costo-efficacia è infatti quella più appropriata. Attualmente non sono presenti in letteratura studi costo-efficacia che valutino se l’AD sia più efficiente, da un punto di visto sanitario, rispetto all’accesso riferito per pazienti con DMS. Tale mancanza è probabilmente dovuta ad implicazioni etiche che riguardano la possibilità di condurre uno studio randomizzato controllato in cui i pazienti sono assegnati casualmente a trattamenti diversi, senza far valere la scelta dei pazienti. Lo sviluppo, in futuro, di trial clinici pragmatici randomizzati con annessa valutazione economica consentirà di investigare in maniera più appropriata se il risparmio di costi dell’AD sia sostanziale anche quando l’efficacia viene integrata nelle analisi economiche.

DISCUSSIONE
Il razionale che supporta questo professional issue deriva dall’esigenza di proporre ed attuare percorsi di cura più efficienti da parte di sistemi sanitari che con l’attuale modello organizzativo non possono essere realisticamente sostenibili nel medio-lungo periodo; infatti è sempre più difficile trovare risposta ad un crescente bisogno di salute a fronte di risorse che progressivamente si riducono per diversi motivi.
Tale esigenza si sposa con la notevole crescita dei Fisioterapisti, sia in termini di produzione scientifica sia in expertise e competenze professionali68. L’AD rappresenta un modello organizzativo in cui il paziente si rivolge direttamente al Fisioterapista senza superare un primo filtro medico, affidandosi al professionista il quale valuterà se e quando sia indicato il proprio intervento piuttosto che il rinvio ad un altro professionista sanitario, sia esso medico o no. Questo modello attualmente è maggiormente diffuso in quei paesi che hanno una tradizione più radicata delle professioni sanitarie69 e che hanno una formazione culturale e scientifica particolarmente votata all’efficienza del servizio sanitario: in questi Paesi sembra essere meno rilevante il peso delle categorie professionali in luogo di una maggior oggettività delle politiche sanitarie adottate. Ultimamente la letteratura scientifica ha visto un aumento delle pubblicazioni inerenti l’argomento AD e la World Confederation of Physical Therapy (WCPT), assieme a prominenti associazioni nazionali come l’American Physical Therapy Association (APTA), si sta muovendo per aumentare la consapevolezza e l’importanza di tale tematic. I dati presentati in questoL. Piano, F. Maselli, A. Viceconti, S. Gianola, A. Chiarotto professional issue sembrano supportare l’AD dal fisioterapista del paziente con problematiche muscoloscheletriche: tale considerazione si fonda sui risultati dei lavori pubblicati in riferimento ad efficacia, efficienza e sicurezza del percorso di valutazione e cura intrapreso dal paziente che afferisce direttamente al fisioterapista. I lavori attualmente disponibili in letteratura evidenziano come l’AD possa rappresentare un modello valido in riferimento a tutte le misure di esito utilizzate nei lavori per valutare la bontà dell’AD: tra queste segnaliamo la soddisfazione del paziente, quantità di esami strumentali e di farmaci richiesti, giorni di lavoro persi, aderenza al programma fisioterapico5,51,52,53,54. L’aderenza al programma terapeutico ed il coping (ovvero l’approccio del paziente nell’intraprendere il proprio percorso di cura direttamente) sono due aspetti rilevanti, ben noti ai clinici che si occupano di DMS, che possono forse spiegare in parte i riscontri positivi dei risultati presentati in questo lavoro: questo sembra essere a nostro giudizio un ulteriore motivo per promuovere l’AD come modello organizzativo nella gestione dei DMS. I risultati clinici dimostrano come l’AD sia più efficace dell’accesso riferito, mentre i dati socio-economici dimostrano come l’AD sia in grado di contenere i costi diretti (numero di esami, quantità di farmaci richiesti,…) ed indiretti (giorni di lavoro persi,…) associati ai disturbi causati dai DMS. Gli aspetti proattivi per lo sviluppo dell’AD vengono considerati fattori quali politiche mirate alla promozione dell’AD e all’autonomia di questa professione sanitaria, mentre la principale barriera che si pone come ostacolo a questo “movimento professionale” che potrebbe definire il fisioterapista come professionista sanitario in prima linea nella gestione dei DMS è rappresentata dalla sicurezza del paziente. Questa preoccupazione seppur realistica, per molto tempo è stata utilizzata come deterrente, soprattutto ai fini politici ed economici, da parte di chi contrasta l’AD. Tuttavia, la corrente di pensiero che sostiene il potenziale pericolo nell’affidare al Fisioterapista la gestione diretta dei DMS in realtà non trova alcun riscontro nella letteratura scientifica pubblicata, come sottolineato anche nella revisione di Ojha: come suggerito da alcuni autori la formazione specialistica del Fisioterapista nella gestione dei DMS rappresenta una conquista importante per affrontare con appropriatezza e sicurezza il paziente in modo diretto. Detto dell’opportunità di una formazione adeguata per gestire in modo autonomo i DMS, sarebbe auspicabile che si costituiscano e si implementino i percorsi formativi di base e post-lauream che consentano al Fisioterapista di apprendere quelle nozioni e maturare quell’expertise necessario per acquisire le competenze cliniche necessarie per affrontare questa sfida. Circa il 69% dei paesi della WCPT che hanno partecipato al sondaggio ha confermato che esistono attualmente dei percorsi di specializzazione finalizzati a fornire al Fisioterapista degli strumenti valutativi indispensabili per una pratica autonoma in un’ottica di autoriferimento: tali percorsi, in base alla nostra esperienza, andrebbero promossi ed implementati dalle Università sia nei corsi di laurea triennali sia nei percorsi specialistici.
Riferendosi al sistema sanitario italiano attuale, ci sembra che l’AD possa rappresentare un punto di svolta inevitabile per cercare di fornire un servizio migliore al cittadino con problemi di salute legati ai DMS. In Italia le barriere che ostacolano la diffusione dell’AD come modello organizzativo siano da ricercarsi in più fattori: difficoltà nell’adozione di modelli organizzativi virtuosi, un la relativa giovane età della professione del Fisioterapista con percorsi universitari di recente istituzione.

CONCLUSIONI
Riassumendo le informazioni emerse da questa analisi della letteratura possiamo sottolineare i seguenti punti salienti:
– l’AD dal fisioterapista del paziente con DMS è più efficace di quello riferito;
– il paziente che accede dal fisioterapista tramite AD necessita di un numero minore di visite e un quantitativo minore di farmaci analgesici;
– la soddisfazione del paziente che accede direttamente dal fisioterapista è superiore all’accesso riferito;
– i costi diretti ed indiretti di un AD risultano significativamente inferiori rispetto a quello riferito;
– l’AD dal fisioterapista del paziente con DMS è altrettanto sicuro rispetto a quello riferito;
– il paziente che utilizza l’AD per avviare il proprio percorso di cura sembra essere caratterizzato da un coping attivo adeguato con possibili influenze positive su compliance al programma terapeutico e sugli outcome del trattamento.
Nel confronto tra AD ed altre tipologie di intervento per la gestione del paziente con DMS i dati sono sovrapponibili con quelli sintetizzati nel confronto tra AD ed accesso riferito: l’AD è caratterizzato da una serie di aspetti positivi tra cui segnaliamo una miglior soddisfazione del paziente, una efficacia clinica quantomeno sovrapponibile agli altri interventi ed una inferiore tempistica di intervento e di risoluzione del problema lamentato dal paziente. Va detto che la letteratura in merito non è numerosa e presenta una certa disomogeneità ma i risultati sembrano essere promettenti per questo tipo di approccio organizzativo. Da questo lavoro si possono trarre dunque alcuni informazioni interessanti che meritano un approfondimento ed una attenta valutazione per comprendere quali siano i possibili sviluppi scientifici e pratico-organizzativi al fine di implementare la pratica dell’AD nel sistema sanitario nazionale.

Accesso diretto in fisioterapia
Accesso diretto in fisioterapia
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FONTE: Leonardo Piano Filippo Maselli, Antonello Viceconti, Silvia Gianola, Alessandro Chiarotto

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